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venerdì 22 aprile 2011

La prigione



Il carcere deve – o per meglio dire dovrebbe – tendere al recupero del detenuto, alla sua rieducazione: a sancirlo, la stessa Costituzione che all’art. 27, 3° comma, stabilisce che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’. E come dare seguito al dettame costituzionale se non offrendo ai detenuti la possibilità di lavorare?
Il lavoro carcerario, infatti, sottrae i detenuti all’ozio, favorisce la loro rieducazione, permettendo loro di imparare un mestiere e di costruirsi così un’alternativa concreta per quando usciranno.
E non è un caso che tra i detenuti lavoranti solo un’esigua minoranza torni a delinquere una volta fuori: a fronte di un tasso di recidiva che sfiora il 90% (!), solamente il 5% (in molti casi appena l’1%) di chi in carcere ha lavorato torna a delinquere. Come a dire che se dietro le sbarre hai imparato un mestiere, una volta fuori scegli il lavoro piuttosto che il crimine.
…Su un totale di 48.693 detenuti …appena 13.326 lavorano. Poco più del 27%, insomma: ma se appena un detenuto ogni 4 lavora, gli altri 3 cosa fanno? Restano in cella 22 ore al giorno, a guardare la tv o giocare a carte…
E di quei pochi detenuti che lavorano, la maggioranza – 11.717, ossia il 24% del totale dei detenuti (che equivale a ben l’88% dei detenuti lavoranti) – lo fa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo mansioni dequalificate (dallo scopino allo sciacquino, dallo spesino al portavitto) e poco formative che si limitano a garantire la sopravvivenza in carcere, senza offrire una vera alternativa per il ‘dopo’…
Eppure, nonostante gli strumenti e gli incentivi messi a disposizione dal legislatore, ai quali si aggiunge un ulteriore vantaggio per le aziende (la possibilità di usufruire di spazi e locali a costo zero messi a disposizione dal carcere), sono pochi i soggetti disposti ad ‘investire’ in carcere. Perché?
Dare una risposta univoca non è facile e sono tanti i fattori in gioco: dalla scarsa professionalità di molti detenuti cui fa sovente difetto una ‘cultura’ del lavoro alle modalità e agli orari del lavoro in carcere, indubbiamente più rigidi e meno flessibili rispetto all’esterno, dalla questione sicurezza (l’ingresso di merci e persone deve subire perquisizioni) ai pregiudizi e alle reticenze. Ma a far la parte del leone sono, ancora una volta, le tante, troppe pastoie burocratiche e la mancanza di una copertura finanziaria adeguata: ecco perché è essenziale sburocratizzare il sistema, prevedere nuovi investimenti e sensibilizzare maggiormente le imprese.
Attenzione, però: far lavorare i detenuti non ha nulla a che vedere con la filantropia o il buonismo.
Far sì che chi è in carcere impari un mestiere significa agevolarne il reinserimento nella società evitando che torni a delinquere (con indubbi vantaggi per la sicurezza di tutti cittadini) e nel contempo anche le casse dello Stato – da cui escono ogni anno 3 miliardi di euro per il sistema carcerario – ringrazieranno.
Il lavoro, dunque, è un’occasione di riscatto sociale per chi sta dentro e di risparmio per chi sta fuori. …Se nel carcere di Favignana, dove i detenuti restano chiusi in cella 22 ore al giorno, ognuno (ci) costa 300 euro al giorno, in quello della Gorgona, dove tutti lavorano, ciascuno (ci) costa 170 euro al giorno ...

Lorenza Viotto Il Duemila 19 gennaio 2009

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