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venerdì 4 novembre 2016

Alluvione Firenze


Vi racconto l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966

Vi racconto l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966
La testimonianza di Marcello Inghilesi, presidente dell'Oruf (Organismo Rappresentativo Universitario Fiorentino) al tempo dell'alluvione

“Marcello, devi rientrare subito; l’Arno ha allagato Firenze; il centro storico è tutto sott’acqua; per fortuna S. Apollonia si è salvata”. A S. Apollonia c’era la sede dell’Oruf, organismo della rappresentanza studentesca universitaria fiorentina; della mensa universitaria (circa 2000 pasti al giorno); dell’Università per stranieri; di una chiesa sconsacrata, trasformata in sala teatrale o cinematografica; della cooperativa libraria; aveva un grande cortile interno, ad uso di tutte queste attività. Insomma S.Apollonia era un centro nevralgico per la vita universitaria fiorentina. E S. Apollonia era salva.
Ero a Venezia e stavo dormendo a Mestre. Cercai di partire subito per Firenze; niente da fare: l’Italia era spaccata in due e Firenze in quelle prime ore della tragedia era irraggiungibile. Quindi decisi di andare in aereo a Roma, nella sede Unuri, rappresentanza nazionale degli studenti. E là mi misi subito al lavoro su tre fronti; l’organizzazione degli studenti disposti a venire a darci una mano, sia dagli altri atenei sia dall’estero (la rete Unuri era molto organizzata); l’organizzazione degli aiuti materiali per il lavoro da fare nell’emergenza (tende, cibo, abbigliamento, strumenti di lavoro e “letti”); il rapporto tra le organizzazioni studentesche e lo Stato, soprattutto per i servizi (trasporti pubblici da ristabilire e treni da piazzare a Santa Maria Novella per far dormire una parte degli studenti volontari). Fu un lavoro enorme, tenuto anche conto dei mezzi allora a disposizione (in pratica solo il telefono). Si raggiunsero quasi tutti gli obiettivi che ci eravamo dati: gli studenti arrivarono da molti atenei italiani ed europei (soprattutto le organizzazioni studentesche francesi, Unef, e tedesche, Sds risposero con grande prontezza ed efficienza). La raccolta di tende, sacchi a pelo, coperte e vestiti da lavoro funzionò. Le Ferrovie dello Stato misero a disposizione i treni che potevano restare nei binari morti della Stazione, come alloggio per gli studenti.
Dopo tre o quattro giorni raggiunsi Firenze e l’”ufficio” di S. Apollonia. Sembrava un quartiere di guerra. Una folla di ragazzi, con moltissimi stranieri, in parte studenti a Firenze e in Italia, in parte provenienti dai Paesi cui ci eravamo rivolti da Roma. E una gran confusione. Riunimmo subito la “giunta” dell’Oruf. Decidemmo come organizzare il nostro lavoro. Comune e Governo avevano immediatamente dato vita ad un sistema di intervento sul quale potevamo e dovevamo convergere. Gli studenti quindi furono diretti nelle specifiche aree di intervento.
Dovevamo levare il fango dalla città che era stata sommersa; era un lavoro di fatica, che non tutti potevano fare. D’altra parte alcune zone della città erano state isolate, con gli abitanti barricati nei piani alti. Uno dei nostri dirigenti studenteschi nel momento dell’alluvione abitava in una stanza di una torre in via delle Sedie, che aveva un locale per piano; raccontò che il pianterreno e parte del primo piano erano stati inondati; e quindi si erano tutti ritrovati nei due piani alti della torre; da lì si faceva tutto con le finestre spalancate; soprattutto inventarono un passavoce stradale, per cui venivano urlati i bisogni di ogni edificio da finestra a finestra, anche su distanze molto lunghe, tendenti a coprire almeno l’area del centro storico stretto, tra piazza della Signoria e il Duomo. Ritirate le acque, il lavoro da fare a terra era enorme. Intervenne l’esercito, con mezzi militari; gli studenti si appoggiarono ai militari, che si erano presentati a S. Apollonia con le armi d’ordinanza; “posa il fucile e piglia la pala” dissero loro scherzando.
Furono poi organizzati dei lavori specifici.
Gli studenti di medicina furono utilizzati per gli interventi in campo infermieristico e di assistenza agli anziani e alle persone ferite o bisognose. Furono di grandissima utilità, perché riuscirono a evitare l’intasamento di ospedali e centri di pronto intervento, lavorando casa per casa. Si unirono agli allievi ufficiali medici, che facevano il corso a Costa San Giorgio e che erano stati immediatamente mobilitati (alcuni di loro, fiorentini, erano anche amici dei giovani studenti che li avevano raggiunti).
E poi gli interventi “culturali”; si trattava di concorrere al salvataggio di opere d’arte e  volumi; moltissimi studenti sotto la guida di esperti dei vari settori, si misero pazientemente al lavoro di recupero; alla Biblioteca Nazionale, agli Uffizi, a Santa Croce e in tutte le chiese e pinacoteche colpite dall’inondazione. Alcuni di quegli studenti sarebbero poi rimasti definitivamente, specializzandosi in quei lavori.
Ma il lavoro più delicato fu richiesto dall’organizzazione  dell’intervento e dalla logistica dei soccorsi. Dopo l’appello arrivarono persone e aiuti materiali da tutt’Italia e anche dall’estero. Il cortile di S. Apollonia diventò un campo di raccolta degli aiuti; si ammassarono casse e contenitori di ogni ben di Dio; medicinali, vestiti, coperte, pale, secchi, sacchi a pelo, brande e così via. Bisognava distribuirli e combattere eventuali episodi di sciacallaggio. Furono organizzate squadre di studenti per settore , con responsabilità specifiche. Il cortile si riempiva e si svuotava quotidianamente; sembrava respirare. La mensa, al primo piano, girava a pieno regime, sotto la responsabilità studentesca (la gestione diretta  della mensa da parte degli studenti era stata una recente conquista); oltretutto i pasti degli “esterni” rimasero a carico dell’Oruf, in quanto sia l’Università che il Comune si sarebbero poi rifiutati di “rimborsarli”. I locali dell’Organismo (ad eccezione del bugigattolo del presidente) diventarono dormitori, come il teatro e anche il porticato del cortile. Ci fu una grande unità tra le varie associazioni studentesche tutte presenti nell’Oruf; i cattolici in particolare si avvalsero anche delle loro reti “religiose” per gli interventi e furono molto efficaci.
La frenesia dei primi giorni si allentò progressivamente fino a ridursi solo agli aiuti specialisti. Cominciarono le cerimonie dei ringraziamenti, dei complimenti e dei riconoscimenti. Definirono così gli studenti  gli “angeli del fango”; sembra che volessero anche darci una medaglia al “valore civile”. Non partecipammo a quelle cerimonie, che ci sembrarono rituali, retoriche e inutili: forse ci sbagliammo; ma noi eravamo… il movimento studentesco, abituati a discutere e a lottare per principi che ritenevamo giusti, più che a fasti e incensi.
Qualche mese dopo il sindaco Piero Bargellini, rientrando dagli Stati Uniti, trovò la città bloccata da una manifestazione studentesca per la pace nel Vietnam; se ne lamentò; gli rispondemmo pubblicamente che eravamo gli stessi, gli “angeli del fango”; e che cercavamo di onorare la medaglia d’oro per la resistenza, che stava appesa al gonfalone del Comune.
Sono passati 50 anni; molti di noi non ci sono più; gli altri sono rimasti anonimi; fecero un difficile lavoro, ma, avendoli conosciuti da dentro, fecero con entusiasmo quello che ritennero il loro dovere nei confronti di Firenze.

domenica 31 luglio 2016

Francia : attentati e valori repubblicani

Terroristi attentatori in Francia, con le loro origini  : Lahouaiej ( Tunisia ) ; Kouachi ( Algeria ) ;Boukezzoula ( Algeria);Coulibali ( Mali );Ghlam ( Algeria);Salhi ( Marocco); Khazzani ( Marocco);Abaoud ( Marocco ) ; Akrouh ( Marocco ); Abdesalam ( Marocco );Mostafai ( Algeria );Amimour ( Algeria);Aggad ( Algeria ) ; Abballa ( Marocco); Merah ( Algeria ). Si tratta in genere di francesi con recenti origini di Paesi colonizzati dai francesi : in particolare del Maghreb, Marocco, Algeria e Tunisia. Questa lista ovviamente non è completa , ma altamente rappresentativa.  Il problema in Francia sembra essere quello del rapporto tra il Paese e gli immigrati dalle vecchie colonie mediterranee. L’ Isis, alla ricerca di terroristi,  in quell’area va a pescare. Sono giovani di seconda o terza generazione di immigrati ; quindi francesi  spesso con doppio passaporto ; mussulmani , con nostalgie per le loro terre di origine. Francesi emarginati , senza prospettive e senza lavoro ; uniti tra loro dalla fratellanza delle nazioni di origine e da una religione , che , se pur  poco o per niente  praticata, li fa sentire diversi dalle radici francesi. D’altra parte la Francia moderna e “umanista” si trascina dietro il complesso coloniale ; si sente colpevole e sente di non aver ancora pagato il proprio conto con la storia. E’ l’unica delle potenze ex coloniali a manifestare questo complesso ; e il fatto curioso è che la Francia , di tutti i Paesi coloniali, fu quella più “paternalista” , più aperta all’integrazione e allo sviluppo delle terre dominate. Il colonialismo separatista  , diretta espressione di un potere “superiore” nei confronti dei dominati , non ha prodotto  così tante recrudescenze nei Paesi coloniali , come in Francia.
La violenza terroristica in Francia sembra concentrata negli ambienti della immigrazione da Paesi ex colonizzati.  I primi immigrati trovarono lavoro e si integrarono rapidamente nel Paese , che li aveva occupati. Le generazioni successive si trovarono ad avere “tutte le voglie dei ricchi e tutti i mezzi dei poveri”, come diceva Alfred Sauvy a proposito dei “sotto-sviluppati”. Avevano avuto scuole , sanità, “vitto e alloggio” ; ma si erano trovate a vivere ammassate nelle periferie urbane , con scarsissima integrazione sociale e culturale con la vecchia Francia , che restava ospitale , ma distante ; anche nella lingua ; il francese delle periferie magrebine delle grandi città è immediatamente identificabile e diverso dal francese  corrente; e soprattutto senza lavoro né prospettive  di vita, francese o non.
Alcuni figli degli ex colonizzati hanno maturato  un odio profondo nei confronti degli ex coloni e del loro Paese-Nazione.
Tutto questo per dire che la ricerca delle radici del terrorismo in Francia , non è così  vasta e complicata ; basta avere il coraggio di superare i complessi coloniali e andare a fondo nello scavare le responsabilità di reti eversive  nate e sviluppatesi, più che nelle moschee, nelle periferie monoculturali ( arabo-ex coloniali) di aree degradate e protette dallo stato sociale francese, che vivono ai margini della legalità e a volte  nella illegalità più violenta ( droga e prostituzione ). E’ peraltro vero che in queste situazioni , la componente “devianza psichica” è spesso fenomeno più diffuso di quello che si pensi.
Che fare ? Ci sono allo stato delle cose , al di là di partiti e istituzioni ,di magistrature e polizie, due “culture” che si confrontano . La prima è quella dell’ “umanismo- mondialista” , per così dire ; ricerca la conciliazione tra stato di diritto e mondializzazione ; assorbe le regole delle super urbanizzazioni con le iper metropoli , le “città-mondo”;  vuole le integrazioni ,anche veloci, delle genti e dei popoli  sotto la bandiera nazionale , ma con la conservazione delle identità di origine , capaci anche di arricchire  la vecchia società francese ( senza andar troppo lontano, il presidente Sarkozy è ungherese di seconda generazione  , il primo ministro Valls, spagnolo , come la sindaco di Parigi , Hidalgo o il presidente della Camera dei deputati, Bartolone,  madre maltese, padre italiano , nato a Tunisi, la ministro dell 'Educazione nazionale, Belkacem  e la ministro del Lavoro, El Khomri, nate in Marocco ). La seconda cultura è quella delle radici della Francia profonda , delle provincie, delle campagne, delle periferie , del “saper fare “ tradizionale e antico, dell’orgoglio del carattere,  della lingua e della storia francese ; della propria identità nazionale. Spesso la prima di queste culture si definisce di sinistra ; la seconda di destra. Nella sostanza le cose non sono schematizzabili così.  La ricerca di una  identità nazionale è voluta da tutti . I mezzi proposti per averla sono diversi e spesso opposti ; ma non è uno scontro tra progressisti e reazionari, tra sviluppo e conservazione . E’ uno scontro sul modo di vedere il mondo di oggi e il ruolo di ogni Paese , o sua regione , di partecipare al suo sviluppo , alla sua storia. E’ uno scontro sui mezzi da adoperare per salvaguardare l’identità nazionale .
Le vicende terroristiche di questi ultimi tempi  hanno accentuato e  accelerato i termini di questo scontro. Anche per un motivo legato alla storia della Francia repubblicana , che dette al mondo l’immagine di una nuova società moderna , attraverso il motto rivoluzionario “ liberté , egalité , fraternité”. Oggi i francesi si chiedono se quel motto non si stia  svuotando di contenuto , giorno dopo giorno, a cominciare proprio dalla Francia ; dove la libertà si sta sempre più restringendo e non di poco ; l’eguaglianza è diventato, nella pratica, un concetto  astratto ; la fratellanza non c’è più, se mai c’è stata , fuori dalle “chiese” .  

I colpi delle pistole e delle armi di ogni tipo hanno contribuito a questa disgregazione dei principi “repubblicani”. 
                                                                                  Marcello Inghilesi
Pubblicato da Le Formiche il 31 luglio 2016

venerdì 15 luglio 2016

Hollande Macron




Che cosa succede davvero tra Hollande e Macron

Che cosa succede davvero tra Hollande e Macron
L'analisi di Marcello Inghilesi

Il 12 luglio Emmanuel Macron, giovane ministro dell’Economia francese, ha organizzato un meeting di un movimento da lui creato, “en marche”, in marcia, perché “tutto questo (la politica attuale) cessi…questo mondo è vecchio, usato, stanco, bisogna cambiarlo”. Dice Macron “sono di sinistra; è la mia storia; la mia famiglia”.
Hollande l’aveva imbarcato nel Governo quando Moscovici fu trasferito all’Economia a Bruxelles. Era un volto nuovo, pulito, con buoni studi e un passato qualificato. Ottimi studi. laureato a “Sciencepo”, inizio accademico in filosofia, diplomato all’Ena, assunto a 30 anni alla Banca d’affari Rotchild, con successiva carriera folgorante; preso infine daHollande a 37 anni, prima come segretario generale aggiunto della Presidenza, poi come ministro dell’Economia. Dunque la sua origine professionale è la finanza, la banca d’affari, a a un anno dalle presidenziali lancia il suo movimento degli “uomini del fare”, e della rottamazione della vecchia politica, e tiene a precisare di lanciarlo dal suo trampolino di sinistra. “Usa la sinistra per fare la destra” dicono i vecchi socialisti.
Il primo Ministro Valls ha subito voluto mettere le cose in chiaro. Macron non può stare in un governo e in un partito che vuol rottamare, decida: o dentro o fuori. La maggior parte dei socialisti sembra pensarla così. Hanno aspettato il discorso intervista del presidente Hollande , per la festa nazionale del 14 luglio. I francesi si aspettavano una scelta del presidente, anche tenuto conto dell’aut-aut di Valls nei confronti di Macon. E, invece, nessuna scelta. “Macron l’ho portato io,  è un ministro bravo e ha fatto cose buone. Come tutti deve rispettare le regole di squadra. Rispettarle è stare al governo, non rispettarle è andar fuori”.
E allora? Macron ha fatto un’assemblea di un movimento non socialista (costola del socialismo?), contro le politiche attuali, contro la “vecchia” Francia. Hollande non ha risposto, ma in sostanza ha fatto una conferenza stampa (riservata a due soli giornalisti ), senza dire nulla di nuovo. Ha sempre giocato in difesa, giustificando tutti i suoi mancati impegni, con le colpe del passato, il terrorismo e la congiuntura internazionale. Quindi, un parlare sciapito, finito con l’inno alla coesione sociale e culturale di un “grande e forte Paese, come la Francia”.
Poiché Hollande è della scuola mitterandiana, e quindi machiavellica, viene un dubbio: non è che l’uscita di Macron sia stata con lui concordata? Siamo a meno di un anno dalle elezioni presidenziali francesi, i candidati si stanno preparando alle “primarie”, i sondaggi danno i socialisti perdenti, soprattutto con Hollande. Danno anche la Le Pen al ballottaggio, perdente contro Juppé, candidato possibile del centro-destra, ma vincente contro Hollande, se questi dovesse essere il candidato del centro sinistra. Se tali sondaggi dovessero “stabilizzarsi”, la mossa machiavellica potrebbe essere quella di preparare un candidato nuovo “di sinistra”, non un socialista di partito, spostatosi a destra e gradito alla finanza. Manuel Valls, primo Ministro, giovane virgulto del partito, nato con Michel Rocard, e quindi piuttosto socialdemocratico, si è messo comprensibilmente in agitazione. “Se si deve andare a destra, chi meglio di me”” deve essersi detto. Ma lui ha il Paese contro, perché è a lui che vengono attribuiti i fallimenti di Hollande, essendo stato proprio lui il suo fedele primo esecutore.
Nei prossimi giorni vedremo. Se Hollande non licenzia Macron, possibile candidato alle prossime presidenziali, significa che la congiura machiavellica è in corso e che il muro destra-sinistra viene spostato a destra, per seguire gli elettori (pratica ormai nota e diffusa). Altrimenti, l’iniziativa del rampante ministro dell’Economia è solo sua e forse delle lobbies finanziarie che gli stanno dietro. Lobbies che non resteranno a guardare le elezioni francesi, che non apprezzano la vecchia politica degli Hollande o dei Juppé (allora meglio Sarkozy) e che, sicuramente, sono contrari all’ascesa di Marine Le Pen.
Pubblicato da Formiche il 15 luglio 2016

sabato 2 luglio 2016

Brexit in Francia

   
Nei villaggi francesi del nord come del sud, la Brexit non è vissuta con sofferenza. Sembra piuttosto un episodio del torneo europeo di calcio, con gli inglesi che hanno preso il pallone e se ne sono andati; e poi l’Inghilterra non è poi così amata (Scozia, Galles e Irlanda di più) da stracciarsi le vesti se esce dall’Unione Europea, che a sua volta è considerata come una roba lontana, costosa e a volte nemica. Quindi sono i media a riempire occhi e orecchie dei francesi sul “cataclisma” Brexit.
GLI AVVOLTOI SONO IN VOLO
Sul “cataclisma” le opinioni in genere sono molto misurate: la Gran Bretagna era già in gran parte fuori dalla vita comunitaria e uscendo del tutto si farà solo del male da sola. Ma diversi avvoltoi francesi si sono già alzati in volo per predare eventuali pezzi di una Gran Bretagna, frantumata dalla crisi: il presidente della regione di Parigi, Valérie Pécresse, si è già detta disponibile a ospitare una nuova city finanziaria nelle terre da lei amministrate (in verità la regione amministra grosso modo solo la formazione professionale e le infrastrutture).
Ci sono invece preoccupazioni tra gli avvoltoi su quella che era la collaborazione nel campo della difesa; facendosi vedere troppo, temono di essere tirati giù come passeri. Ma in sostanza non ci sono timori particolari su grandi conseguenze nell’interscambio commerciale tra i due Paesi, anche nel caso remoto di dazi reciproci. Sulla city finanziaria si prevedono uscite e ferite, ma nulla di preoccupante, soprattutto se tenuto conto della rete mondiale inglese, delle garanzie amministrative e fiscali riservate ai titoli in commercio. E poi c’è il Commonwealth (che non è proprio come l’Associazione dei Paesi francofoni) che vale 16 Paesi, tra cui Australia, Canada e Nuova Zelanda, che di fatto continuano ad essere reami della regina Elisabetta. D’altro canto le borse, avuto lo scossone iniziale, sembrano rientrare nei loro andamenti normali seppur, come sempre, con frange speculative.
IL SOLE DOPO LA TEMPESTA
“Passata è la tempesta, odo augelli far festa”? Assolutamente no. La Francia sembra vivere male questa Brexit sia in ambito comunitario che in quello interno. Hollande è accusato di non avere nessun progetto per l’Unione Europea e nell’opinione della stragrande maggioranza dei francesi è in profonda crisi. Il Presidente vivacchia con slogan generici, come “l’Ue è oggi molto forte per poter dare le giuste risposte alla Brexit”, mentre le opinioni di 10 Paesi europei si scontrano, anche frontalmente con quelle dei 6 fondatori. Altro slogan: “Non si tratta di rifare l’Europa , di ricostruirla, ma solo di continuare a mettere mattoni su questo edificio”, in risposta al premier polacco che preconizzava un nuovo trattato europeo, diverso dall’attuale, ove poter recuperare anche la Gran Bretagna.
IL NUOVO (FINTO) ASSE A TRE
Molti Paesi dell’Unione si sono lamentati della trazione franco-tedesca e così la Merkel ha aggiunto Renzi a Hollande in una riunione convocata a Berlino, non a Bruxelles. C’è chi ha visto in questa nuova alleanza come una nuova dominazione tedesca, che usa gli altri Paesi, compresa la Francia, in funzione dei propri interessi. In tutto questo Hollande non svetta come un vero leader, capo della Francia e neppure del Lussemburgo. E poi l’unico punto vero di divergenza tra la Merkel e Hollande (che forse si era conquistato l’appoggio di Renzi) era sui tempi dell’inizio della Brexit: Merkel era per la “calma e gesso”, Hollande per il tutto e subito. Tesi quest’ultima che, con le ore, si è dimostrata quasi ingenua.
LE MOSSE RAPIDE (E INEFFICACI) DI HOLLANDE
C’è stato un referendum nel Regno Unito e sta al Governo inglese aprire le trattative per la Brexit, sempre che lo voglia fare, quindi urlargli addosso che lo faccia subito sembra mossa inefficace e prepotente. Non solo: la Germania ha forti interessi commerciali da difendere con la Gran Bretagna, che devono essere studiati, senza essere spinta a politiche provocatorie inutili. Ma Hollande non vuole che questa storia si trascini, per paura di effetti interni in Francia. Se si riesce a dimostrare che si può vivere anche senza Europa, gli euroscettici interni potrebbero portare una guerra politica con armi in più per la vittoria e il Presidente vuole subito tarpare le ali a questo disegno.
Marine Le Pen e il suo Fronte Nazionale, in fondo, non sono ormai quasi mai tacciati di “fascisti” (come capita molto spesso nella nostra cronaca politica, in questo senso un filino antiquata e primitiva), ma sono visti come nazionalisti e negli ultimi tempi, come nazionalisti europei. Attorno a queste posizioni si sono creati molti consensi istintivi più che ragionati, ma assai influenti sulle prossime elezioni presidenziali. Non a caso, con la Brexit, Hollande è restato solo a difendere la tesi di un rilancio di questa Europa: a “destra” e a “sinistra” si parla di “ricostruzione europea” su nuove basi (come d’altronde sostengono i governi dei 10: Polonia, Ungheria, Romania, Spagna, Grecia, Bulgaria, Slovenia, Slovacchia, Austria e… Regno Unito).
In conclusione in Francia la Brexit è ormai giocata come un problema politico interno, per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Tutto non sarà come prima; ma la palla dei francesi a Bruxelles probabilmente continuerà a rotolare con calma, al di là di ogni manifesto “rivoluzionario”, di uso comune per le questioni politiche e sociali del Paese (o della Nazione?).

Marcello Inghilesi  Pubblicato da Le Formiche il 2 luglio 2016

giovedì 21 aprile 2016

Export democrazia


sabato 27 febbraio 2016

La giungla di Calais e della UE

Migranti, ecco tutti gli orrori della giungla di Calais

Migranti, ecco tutti gli orrori della giungla di Calais
L'analisi di Marcello Inghilesi
3700 migranti stanno ammassati in un accampamento di fortuna a Calais in Francia, col desiderio di poter partire per l’Inghilterra. Di loro 326 sono bambini, in gran parte abbandonati. L’Inghilterra non ha alcuna intenzione di accoglierli. Il ministro degli Interni francese ha deciso l’inizio della evacuazione forzata del campo. 250 migranti e 10 associazioni umanitarie hanno fatto ricorso alla giustizia amministrativa di Lille, per rendere nullo il decreto del ministero. Ma il tribunale ha respinto il ricorso e quindi il campo comincerà ad essere smantellato. Nello stesso tempo il ministro degli Interni belga ha deciso di sospendere la validità del trattato di Schengen e ha stabilito il controllo frontaliero tra Belgio e Francia: in poche parole il Belgio non vuole altri immigrati, che per lo più stavano arrivando dalla Francia.
La sinistra francese urla contro la politica dei respingimenti del governo, peraltro presieduto da un socialista; e lo stesso sindaco di Lille (dipartimento di Calais), la socialista Martine Aubry, figlia di Jacques Delors, catto-socialista, già presidente della Commissione europea, si è schierata contro Manuel Valls, primo ministro sempre socialista. Anche i nazionalisti urlano “ve lo avevamo detto e già da molto tempo”.
In conclusione ci sono venti di burrasca nell’esagono, anche perché il problema dell’immigrazione si attorciglia con quello dell’islamismo e della identità nazionale del Paese. E in mezzo ora ci sono questi 3700 migranti, che nessuno sembra volere, a parte il “vogliamoci bene” di associazioni umanitarie e retoriche politiche. Cosa fare?
Intanto la rimessa in questione di Schengen non solo ai confini dell’Europa, ma anche nel suo cuore storico, nei fatti significa che bisogna provvedere (non pensare soltanto) al dopo Schengen; bisogna in poche parole rivedere il trattato sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione. Pensare che il precedente gravissimo registratosi tra Belgio e Francia costituisca solo un incidente congiunturale, è pia illusione; il fatto non è “poliziesco”; esso è politico e ci vogliono coscienza e capacità politiche per risolverlo.
I migranti da tutti rifiutati sono bloccati nell’accampamento di Calais, chiamato la “giungla”; non possono più muoversi né avanti (Inghilterra), né indietro (Francia) né di lato (Belgio); né possono tornare a casa, sempre che ne abbiano ancora una, per mancanza di documenti e di soldi. E i 3700 della giungla di Calais rappresentano solo la punta di un iceberg enorme che sta attraversando tutta l’Europa. Ogni singolo provvedimento può essere giusto o contestabile; ma è sempre provvisorio, congiunturale, assolutamente non risolutivo. I capi di questa Europa devono chiudersi in una stanza e decidere su cosa vogliono fare sul problema di queste migrazioni bibliche dal sud al nord del mondo, dalle zone di guerra a quelle di pace; e non uscire da quella stanza se non con una decisione; ne rispondono alla storia di questo continente. E se non si mettono d’accordo, ogni Paese non potrà che riprendere la propria autonomia di decisione e di azione in materia.
Un ultimo problema, ancora di “metodo”: ma queste Nazioni Unite proprio non c’entrano nulla? Non possono fare nulla? Solo mantenere decine di migliaia di persone che si passano carte in centinaia di lingue tra sedi, Paesi e continenti?
Le immagini della giungla di Calais sono raccapriccianti; molti di questi migranti forse vorrebbero tornare a casa e tutti vorrebbero uscire da questa “giungla” dove si sono cacciati o dove sono stati intrappolati. E come loro altre centinaia di migliaia in tutta Europa. Il tempo delle parole è ormai finito.

martedì 26 gennaio 2016

Contro i faccendieri della politica

377 commenti

Le vere cause del debito pubblico italiano

Dal 1981 la Banca d’Italia, per decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, ha smesso di monetizzare il debito pubblico che è schizzato alle stelle. Una storia che si è ripetuta, amplificata, con l’Euro e la BCE.
di Domenico Moro da Pubblico 
In questi giorni la stampa tedesca ha attaccato con forza Draghi. Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Holger Steltzner, lo ha accusato di voler trasferire alla Bce i metodi della Banca d’Italia. Questa sarebbe al servizio dello Stato, di cui alimenterebbe le casse. Se ora la Bce finanziasse i debiti statali acquistandone i titoli, scatenerebbe l’inflazione e aggraverebbe la crisi dell’eurozona.
Come ha fatto notare anche il Sole 24ore, le critiche di Steltzner alla Banca d’Italia sono infondate. A partire dal 1981 la Banca d’Italia ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella lontana decisione contribuì a produrre non solo l’enorme debito pubblico ma anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della Ue e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca.
Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.
Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue. La crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, soprattutto dalla necessità di sostenere le crisi e la caduta dei profitti privati che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più avanzati. Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della domanda, quale è la Banca centrale, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale.
Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali. Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi speculativi alla lira costrinsero l’Italia ad uscire dal Sistema monetario europeo e a svalutare. Insomma, non solo Steltzner ha torto riguardo alla Banca d’Italia, ma è il principio stesso dell’“autonomia” della Banca centrale, da lui tanto tenacemente difeso, ad aver dato per trent’anni in Italia gli stessi risultati negativi che ora sta producendo nell’eurozona.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto quale fu la ragione del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Ce lo spiega il suo autore, l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. Uno degli obiettivi era quello di abbattere i salari, imponendo una deflazione che desse la possibilità di annullare “il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dall’accordo tra Confindustria e sindacati”. Infatti, nel 1984 con gli accordi di San Valentino la scala mobile fu indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata. Anche oggi, come allora, le presunte “necessità” di bilancio pubblico sono la leva attraverso cui ridurre il salario, in Italia e in Europa. Con la differenza che oggi l’attacco si estende al salario indiretto, cioè al welfare.