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venerdì 23 agosto 2013

Perorazione garantista




23 agosto 2013 - ore 06:59

Perorazione garantista

Se dopo tanti anni, a milioni stanno ancora con lui, ci sarà pure una ragione. Non basta il talento del comunicatore o l’appeal degli slogan contro la pressione fiscale. Se il Cav. seduce ancora è anche perché è l’unico che abbia osato sfidare la magistratura a petto in fuori. I tanti che alzano il ditino a difesa del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, dell’insopprimibile uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, i tanti che straparlano di sentenze che non vanno nemmeno commentate ma solo rispettate ed eseguite, i tanti che credono nella bontà di un sistema in cui magistrati di ogni ordine e grado sono indipendenti e liberi di sottrarsi a ogni controllo perché questo detta la Costituzione più bella del mondo, gli editorialisti di giornali di proprietà della conglomerata delle procure, gli intellettuali con un bersaglio fisso in mente, un Partito democratico come per miracolo unito, il venerabile Scalfari che ha solo un attimo di imbarazzo ma poi a domanda risponde che è giusto che i magistrati abbiano in mano la libertà degli altri perché hanno vinto un concorso statale: bene tutta questa importante materia grigia è solo minoranza, agguerrita, determinata ma pur sempre minoranza. La maggioranza degli italiani invece sa benissimo che l’obbligatorietà dell’azione penale è una favola oscena. Che ogni procuratore ha facoltà di cambiare l’ordine dei suoi dossier, dedicarsi al più succoso di cui prevede che prima o poi lo porterà a fare notizia al Tg delle 20. Quanto alla legge uguale per tutti, si sa che i rapinatori, quando decidono di fare un colpo, si informano anche dei giudici e della giurisprudenza imperante nelle varie città. E’ una questione di pelle: per una maggioranza di italiani, non si stratta più di stigmatizzare le cosiddette toghe rosse, la parte politicizzata della magistratura.
Il Cav. è un moderato, fa tenerezza il suo – e dei suoi – distinguere il grano dall’erbaccia: la toga in quanto tale, la corporazione tutta che ha perso da tempo autorevolezza e la competenza necessaria per essere il baluardo dello stato di diritto. Vale per la giustizia penale, civile e pure sportiva. E’ vista, lei sì, come una casta, dedita a riti barocchi, ben riparata dal corpus legislativo più ridondante e complicato d’Europa, che parla una lingua di altri tempi. Non si tratta più dell’incedere da puttane con un manto di ermellino, che tanto colpì l’allora direttore del Manifesto Luigi Pintor che assisteva all’inaugurazione dell’anno giudiziario, altri tempi e altra sinistra. Oggi è la loro idea di giustizia che è insieme fumosa e furente, obesa di faldoni, commi e sottocommi. La lunga partita contro il Cav. si è giocata con la cultura giuridica nata negli anni di piombo e rafforzatasi nelle emergenze successive: la cultura del “non poteva non sapere”, del “relata refero”, la negazione del principio che la responsabilità penale è individuale.
Se Marco Pannella ha ragione, ce l’ha per difetto. Voler separare le carriere dei magistrati e riconoscere la responsabilità civile  è buona cosa ma ci siamo già cascati un paio di volte. L’amnistia è ancora meglio ma non è da oggi che ci si prova. La battaglia da fare è dunque più grande, più radicale, in tutti i sensi. Rimettere al centro l’individuo e le sue libertà significa rimettere mano sostanziale ai codici, mettere davvero difesa e accusa sullo stesso piano, non di fronte a un gip spesso in debito con le procure ma di fronte a un giudice terzo.

Una battaglia così solo il Cav. può guidarla. Un Cav. che dovrebbe ammettere di aver sbagliato nel 2001 e nel 2008 a non farne la questione centrale e generale, l’ubi consistam del suo essere in politica: anche altri leader o tecnocrati possono fare una decente politica estera, ridistribuire ricchezza o far scendere la pressione fiscale. Ma rovesciare il mondo della giustizia e fare finalmente dell’Italia un paese civile, questo solo lui può farlo: lui, non i suoi figli, non i dirigenti del suo partito. Non si rendono conto quelli che lo vogliono fuori dal Parlamento. Fuori dal Parlamento il Cav. è nato e cresciuto, nel contatto diretto con il popolo sovrano: niente trattative in vista del voto al Senato, niente richiesta di grazia, umiliante e politicamente irrilevante. Per cultura e per il coraggio dimostrato il Cav. è un extraparlamentare. Resti tale e dica addio ad Aule. L’agibilità politica, quella non gliela può togliere nessuno se non gli elettori. Se se la sente, faccia un po’ d’ammuina: lui che varca la porta del carcere simbolicamente sarebbe un trionfo. E un incubo che si rinnoverebbe ogni giorno per i suoi avversari. Vada all’attacco, legga Jacques Vergès più di quanto sta a sentire gli avvocati. Al punto in cui si è non c’è più nulla da difendere, c’è solo da vincere l’ultima battaglia.
Lanfranco Pace Il Foglio

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