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venerdì 21 maggio 2010

Del gene 2123

Gli scienzati Craig e Venter hanno creato una cellula artificiale"...il cui punto di arrivo potrebbe essere una forma vivente costruita in laboratorio e programmata per una funzione specifica..." Quindi:


BARTOLO E IL GENE 2123 : OVVERO DELL’ETERNITA’


Una mattina Bartolo si guardò allo specchio: si trovò brutto, pieno di rughe, di pieghe, di tagli, di orli; si sentì cadente, molle: “L’inizio della fine?”, si chiese, e pensò ancora una volta all’eternità. Era diventato religioso, pensando all’eternità: aveva cominciato a credere all’anima, alla vita eterna, al mistero della morte, alla Provvidenza e al Destino. Ma l’eternità era rimasta, nel fondo, la sua vera utopia. Viveva così volentieri: con i suoi piaceri e le sue curiosità, su fratture e su esplosioni, su violenze e su razionalità. Si era innamorato della vita e temeva la morte: e così sognava l’eternità.
“Nel laboratorio Gerontycon in Nuova Zelanda è stato scoperto il gene 2123 capace di ricostruire tutte le molecole del corpo umano”. La notizia comparve prima nelle agenzie di stampa e nei giornali: poi dilagò in prolusioni scientifiche, dibattiti, liti, smentite e conferme. Con il tempo (passarono più di cinque anni) la ricostruzione genetica dell’uomo era diventata una possibilità reale e sperimentata: alcuni morti più “semplici” (infartati o colpiti da ictus) erano già stati “rigenerati” e vivevano normalmente. La stampa e i mass media impazzivano. Bartolo divorava tutto: ormai aveva capito che il sogno dell’eternità non era più così peregrino e quindi il suo unico dubbio restava sul tempo necessario per poter godere anche lui della grande scoperta. La produzione di gene 2123 si estese e andò ad occupare nicchie di mercato sempre più vaste: non solo quelle dei morti “semplici”ma anche quelle dei “più complessi” (tumori in metastasi diffusissima, malattie devastanti), fino a quelle dei morti apparentemente “impossibili” al recupero (suicidi da precipizio; disgrazie da trasporto o da incendio e così via). Pazientemente il 2123 riusciva a risolvere tutto:anni di minuziosi lavori riportavano tutti alla vita normale. A quel punto Bartolo entrò in uno stato di ebbrezza da godimento esistenziale. Assisté a scene e a storie incredibili, di rivoluzione totale per la vita, per il pensiero e per la morale. Tutti pianificavano mille lavori, mille residenze, mille esperienze: sembravano calmi, ma erano agitatissimi: “tra cent’anni farò il medico” e poi correvano subito alla facoltà: al primo esame fallito, cambiavano: “farò il giornalista”: fallito; e cambiavano ancora, subito: in una nevrosi da vita del “tutto-subito” per l’eternità: anche se, obiettivamente, era una nevrosi difficile da sopportare.
Bartolo era confuso e correva anche lui dietro a tutto, senza stringere granchè. Si trovò di fronte a problemi ideali e politici grandissimi. Una sera per esempio discusse a cena, fino a tardi, l’argomento del giorno: l’eliminazione delle Forze Armate. In effetti la violenza fisica poteva essere solo dolore e non più morte: tanto valeva avere poliziotti picchiatori e non eserciti inutili. Andarono tutti a letto con una gran confusione in testa: e che fare allora delle Nazioni? Il binomio Forze Armate-Nazione aveva sempre funzionato: ora crollava. Che fare? Che pensare? Bartolo si arrotolò nelle coperte e prendendo sonno decise di essere solo aretino: tutto il resto doveva essere legato e connesso alla sua eternità.
Una domenica, come d’abitudine, Bartolo andò a messa: ormai si rannicchiava su uno stesso vecchio e cigolante inginocchiatoio, da secoli: piegava la testa tra le mai e pensava: all’uomo, alla Terra, a Dio, all’esistenza e a questa eternità che tutto sembrava racchiudere. Quel giorno però la voce dal pulpito interruppe la sua meditazione. “Il materialismo è dilagante. Le chiese sono vuote. Siamo rimasti in pochi, uniti da amore in una fede, che non riesce più a legare, a spiegare e a ricostruire il mistero dell’esistenza. Fra poco ci elimineranno: ci considereranno setta dissidente e oscura”; poi urlò:”ma nessuno ci strapperà l’amore che è in noi!”: l’urlo fu forte: echeggiò tra le mura squadrate della vecchia basilica: avvolse le colonne: e corse sui pavimenti eterni, lucidi e freddi. Urlando, il preposto rotolò a terra:svenuto, morto? Lo portarono subito in Sezione 2123, per la rigenerazione. Ma Bartolo restò sconvolto. Gli pareva tutto così chiaro. Dio è l’eternità, Dio sono le cose, le loro relazioni, la loro dialettica, le loro esplosioni e i loro dissolvimenti. Dio è nelle manifestazioni epocali della vita, nei disastri e nelle straordinarie bellezze dell’Universo. Dio è la morte; il non essere non era un passaggio, ma solo una continuità. E’ quindi questa nuova vita eterna doveva far ritrovare a tutti quel Dio perso nei sogni dell’aldilà. Bartolo ritrovò Dio nelle cose dell’essere: e poi si convinse di un paradigma molto semplice: l’essere nel suo insieme è Dio: il non essere è niente, non c’è: come può essere Dio? Uscì dalla Chiesa frastornato e cercò di fare amicizia con alcuni teologi: incontrò qualche problema; forse il preposto aveva ragione: il materialismo stava confinando la religione in aree di setta: e quindi i ragionamenti dell’anima erano totalmente emarginati.
Bartolo aveva sempre voluto bene a Marta: si erano conosciuti da piccoli: e si erano sposati e poi uniti, per sempre, per scelta, per timore e per quelle diavolerie psicologiche incomprensibili, non avevano mai avuto bambini: forse non potevano averli, come diceva la gente a loro vicina. Ma si trovarono inconsciamente nella linea politica-universale vincente; “Non fate figli”; “Un bambino in più, uno spazio in meno”; “E’ vietato…”. In effetti senza morti e con le nascite, la Terra non avrebbe retto: a lungo andare le genti si sarebbero paralizzate, schiacciate le une nelle altre e boccheggianti.
Bartolo e Marta discussero a lungo del problema: e stranamente, per il loro stato di non genitori, erano invece solidali con chi voleva bambini: la loro tesi era un po’ fatalista: Dio provvederà! Ci furono articoli e volumi sul periodo della popo-paralisi (paralisi da eccesso di popolazione). E Bartolo lesse tutto: i pericoli e i rimedi: il soffocamento prossimo venturo e il “numero chiuso” di viventi sulla Terra: neanche di creature, perché gli animali per lo più venivano lasciati morire, senza 2123. La sterilizzazione stava diventando generalizzata, come soluzione finale, necessaria.
Ma lui pensava all’Universo: Dio avrebbe trovato soluzioni fuori dal globo terracqueo conosciuto: non stiamo già andando in fondo ai mari a fare città? Non stiamo scavando nelle viscere della terra per nuove risorse? Non mandiamo navicelle in giro per i pianeti qui intorno, nel cielo, in esplorazione? Figurarsi se ci sarà bisogno di spazio. Così pensava Bartolo. Molti scapparono e si rifugiarono in anfratti del mondo: continuarono a fare bambini, celando grossezze e gemiti, parti e culle: correndo da un posto all’altro del mondo per non dover ammettere la violazione della regola delle nascite. Ma poi i problemi diventarono sempre più gravi: non tutti ovviamente accettarono la teoria della sterilizzazione; in alcune parti del mondo venivano accolti i nuovi nati; che poi ingrossavano popolazioni che si riservano altrove: conflitti, discussioni, insulti, imbarbarimenti.
Bartolo assisté a tutto ciò in diversi secoli di vita, di professioni, di grandi gioie, ma anche di grandi delusioni e dolori: La vecchiaia di fatto fu bloccata: ma là dove non voleva lui; la morte non c’era più: ma la vecchiaia si: con gli acciacchi: perché il ricorso ripetuto al 2123 rigenerava sì, ma totalmente, riportando organi e testa sempre più indietro, a stati infantili: esso quindi poteva solo servire a salvare dalla morte , ma non dagli acciacchi della vecchiaia, che venivano, per carità, curati e migliorati, ma che pur sempre restavano, in tutte le loro miserie.
E così Bartolo invecchiò, avviandosi all’eternità. In fondo, anche con gli acciacchi, tutto avrebbe funzionato, se non fosse stato per la testa. In effetti le nevrosi erano sempre più frequenti, negli ospedali, i reparti più affollati, restavano quelli psichiatrici: e la maggior parte dei pazienti era senza soluzione, o la follia ordinaria o la follia infantile del 2123. Se il corpo infatti riusciva ad avviarsi alla vita eterna, non lo stesso o con lo stesso ritmo riuscivano a fare il cervello, i sensi, e la morale e l’insieme di quelle che chiamavano “personalità”. Questa frattura tra corpo e non corpo creava follia: la gente litigava per niente, discuteva su tutto; ma soprattutto tendeva a sopportarsi sempre meno: anche perché l’io, proiettato nell’eternità, tendeva ad essere assoluto, presuntuoso, vanesio, egoista: in sostanza tendeva a disprezzare gli altri. E poi questo “io”, sempre più “egopotente”, cominciò anche a stancarsi della vita, del quotidiano, dei programmi a scadenze secolari.
Così successe anche a Bartolo: che un giorno, dopo l’ennesima crisi isterica, (di cui ormai era stata contagiata anche Marta)fu portato al neuropsichiatrico. Fu calmato per una decina di anni. Poi entrò in analisi per più di centotrent’anni. Ma ricadde in una crisi violenta. Mangiava male: era aggressivo e si trascurava. Gli occhi persero ogni dolcezza. E poi la barba si fece incolta. E i peli tornarono a crescere, neri, ispidi. Non sorrideva più: non era più capace: lo stesso volto lentamente si imbruttiva, si inselvatichiva. Guardava ormai tutto con odio. Fu isolato. E perse definitivamente Marta.
E come lui, tanti, tantissimi altri. Fu come un’epidemia, gigantesca, travolgente: la crescita del disastro fu esponenziale: e quindi il raddoppio finale poteva essere quello della morte generalizzata. Tutte le emergenze furono attivate: ma si cominciò seriamente a vedere la fine.
Un giorno aprirono la porta di Bartolo: lui era ormai ridotto in uno stato pauroso: fece un grande urlo: e posò quelle che erano state le braccia a terra:e scappò urlando e seminando terrore: altri lo seguirono. La foresta vicina diventò sempre più foresta: essa occupò e divorò l’asfalto, le case, i villaggi, le città.
Bartolo, seduto con le zampe a terra, guardò il tramonto, bellissimo, segno di Dio, e là, in una strana foschia vespertina, in fondo, vide un muro grande, disastrato e aggredito dalla vegetazione; e una scritta scolorita tra le grandi foglie: “gene 2123”. Gli occhi si gonfiarono di lacrime.

da: Marcello Inghilesi Piccole Storie Debatte 2006

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