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domenica 11 ottobre 2009

Gilberto



Gilberto era un passero signore: nato e cresciuto sui tetti del castello dei Guidi, a Poppi, in Casentino. Era l’ultimo di un’antica casata di passeri, che aveva, dall’alto, vigilato sulla vita dei nobili castellani. Lui per di più era bello: bello di piume, di becco e di sguardo. Si spostava raramente dalla piazza del Castello; considerava i passeri dei campi e dei boschi, delle povere creature, esposte a tutte le possibili penurie o disgrazie della vita.
Lui dall’alto dei tegoli rossi e cotti, muschiosi e ombreggiati, del Borgo antico, girovagava per gli anfratti delle pietre, a beccheggiare, con fare annoiato. E poi tornava su, nei torrioni, a vedere passare il cielo, a sentire i canti del vento, a scrutare i colori dell’aria, quasi sempre diversa.
E furono proprio i colori, una sera di un meraviglioso tramonto, a farlo riflettere.
“Che ci faccio qui da solo, dentro queste mura, dai colori conosciuti, vecchi, antichi, grigi, scuri, profondi?”
La verità è che era stato abbagliato da un lontano campo di girasoli, nel pieno della luce vespertina; un giallo intenso, di fuoco; un riflesso di luce colorata dalla natura; un’esplosione visibile di gioia e di violenza. Riandando con lo sguardo alle sue pietre, ebbe come un senso di tristezza, di fatica, di pena per la vita piatta, fatta di pietre.
Aveva ora un gran desiderio di colori: una curiosità per quei lontani disegni e giochi e violenza della natura; e poi una curiosità per il mondo, per giri più grandi della sua piazza.
E così partì.
Volò subito lontano, per evitare ogni ripensamento e anche per soddisfare quella voglia improvvisa e forte, quella decisione impetuosa. Volò alto; vide campi e borghi; le linee dolci delle colline, quelle più acute dei monti; vide le composizioni dei colori; sentì gli odori. Puntò a sud, verso il Sole, la Luce; vide città e fiumi e fiamme; aria sporca; incontrò l’Acqua; si lasciò portare dal vento, che sembrò volergli bene, non contrastandolo mai.
Poi il caldo ebbe la meglio: decise di fermarsi in un posto colorito, pieno di acquazzoni e di vegetazione arcobaleno, dalle tinte forti. Piante padrone! Anche con le acque furiose e con il soffio isterico dei tifoni quelle piante restavano superbe a lasciarsi strapazzare, ma anche a urlare la loro forza; il passare della vita e il loro restare maestoso, di sfida in sfida, nella loro bellezza trionfale: fino al fuoco e alla mano distruttrice.
Il borgo era di legno, sudato da un sole umido. Tutto era lento: lenti gli uomini, bagnati dal caldo e dal loro calore; lenta l’aria, appesantita dalla sua fatica, torrida; lenta la natura, quasi un ombrello di ombra per il sudore della vita. Quasi tutto era meravigliosa sopravvivenza.
E così Gilberto si imbarcò: con uccelli grandi e piumati; gioiosi e melodiosi: buffi: anche gli uccellini piccoli erano come i grandi: piumati, gioiosi, melodiosi e buffi. In sostanza, però, belli. Gilberto si innamorò di una sgricciolina piumata di verde, piena di femminilità, in tutto. Lui, rude castellano di Popi, crollò; si liquefece di fronte a quel batuffolo di piume verdi e colorate, tropicale. E crollò anche Guglielmina, batuffolo di piume, piena di voglie e di curiosità, di fronte a quel terreo e ruvido passero dei torrioni di Poppi, delle montagne di una lontana e misteriosa Etruria. E così Gilberto cominciò questa vita nuova e tutta pazza, per un nobile passero delle pietre e delle torri del Casentino.Si divertì tra mille avventure e mille cose nuove; e si abituò anche a quei nuovi cicli. Una sola questione lo aveva turbato, fin dal suo arrivo: il grande urlare di tutti gli uccelli, ma anche di molti animali, al calar della notte; e poi il loro improvviso silenzio nel buio, salvo grida lontane, soffocate, disperse. Dapprima interpretò tutto ciò come una liturgia magica, di preparazione alla notte e al sonno. Poi invece Guglielmina, il suo batuffolo verde tropicale, gli spiegò il fenomeno:”Qui noi abbiamo paura del nero, della notte che arriva velocissima; ci sono uccelli della notte che invece temono i colori del giorno; ma sono pochi; noi temiamo il nero, il buio; e tutte le volte che il nero ci scende addosso, gridiamo, piangiamo, ci disperiamo; e appena la luce ricolora il mondo, ricominciamo a vivere o facciamo festa”.
Paura del nero e della notte! E’ vero, molte creature sono così; da bambino piangeva al buio: da grande taceva, ma soffriva. Gilberto allora non aveva capito; ora era tutto chiaro. Ci sono creature che temono il nero e la notte.Le urla dei suoi nuovi amici manifestavano, in una terra tutta manifesta, questa paura; e quasi protestavano o piangevano, in una coro collettivo, bello, sinfonico, spesso disperato.
Una notte Gilberto si ubriacò; fu una esperienza e una sensazione disgustosa; sentì i brividi, vomitò, vide tutto di traverso, e tanti, tantissimi colori, tutti forti, violenti, innaturali; e solo Guglielmina riuscì a riportarlo nel loro splendido ricovero, in un albero secolare.
Al risveglio sentì la nostalgia di Poppi, del borgo, delle pietre, della monotonia antica, con pochi colori, ma tutti impregnati di storia, di vita antica, di pietre più forti e più intricanti, rispetto a quella maestosa vegetazione, a quel festival di colori, inebriante.
Decise così di riprendere la strada del nord; cominciava già ad essere vecchio: qualche mese ancora e non ce l’avrebbe fatta più a volare tanto lontano.
Parlò con Guglielmina, che non fu per niente attratta dall’idea di una migrazione; anzi restò decisamente contrariata; ma credendo a una delle solite commedie filosofiche di Gilberto, agitò le piume verdi e rise, rise e rise ancora, urlando. Gilberto capì la sua lontananza. E poco dopo scappò.
E volò alto; si unì a stormi di migratori: poi continuò in solitudine. Trovò di tutto; e quasi tutto grande, a volte impetuoso: il vento, la luce, le acque, le terre verdi e ancora il giallo pastoso dei campi di grano e il giallo violento dei campi di girasole. Arrivò così l’estate calda. Ogni tanto, di notte, si rifugiava nella verdura di alberi alti e frondosi, esposti a tutti i sospiri freschi dell’aria. Imparò a riconoscere i concerti dei grilli. Nelle notti calde il coro dei grilli sembrava una somma, al massimo un inseguirsi, di richiami tristi. Ma non è così. E Gilberto scoprì i concerti, la chiave di quei concerti; i loro cori melodiosi e allegri (che, a sentir bene, pur in apparenti monotonie, sono diversi). E ogni notte, a ogni coro, Gilberto dette un nome: “calda è la notte”, “canto alle stelle”, “aspettami, sto sognando”, e così via.
Imparò il linguaggio della cicala; che non piange, ma racconta interminabili storie, che aiutano a prender sonno e a perdere i sensi nei caldi pomeriggi del sole e degli olivi.
Arrivò il momento dell’ultimo grande salto; il suo castello era ormai vicino. Si alzò in volo, che era ancora notte; ma tanta era la smania di arrivare, di rivedere, di ritrovare, rivisitare…Volando sognava, pensava, ricordava: quel lontano mondo, caldo; i suoi colori; i pianti delle notti, del nero e delle urla delle furibonde acquate. Guglielmina era stata un gioco, un meraviglioso gioco, per tutti e due. Rivide le grandissime forze della natura; e la loro violentissima bellezza.Poi scorse l’Arno antico, mentre…"volta il muso" ad Arezzo. Si abbassò a riprendere forza e a risentire gli odori della vallata; e nella vallata entrò cantando, felice, eccitato. Risalì l’Arno; e ritrovò molte delle sue cose, che gli sembrarono più piccole, più modeste rispetto ai ricordi e ai sogni. Gli insetti in volo; l’acqua rustica e fredda; i colori scuri dei sassi e delle piante; rivide la gente opaca delle piazze, nei paesi e nei borghi. Poi si alzò a cercare Poppi; e lo vide lassù bellissimo e pietra nel cielo; il castello e il borgo. Emozionato fece un giro su sé stesso e guardò lontano, l’aria, i colori, la vallata. E ritrovò quella macchia fiammeggiante di girasoli, che fu all’origine del suo partire.Si abbassò; e poi ci si buttò dentro, per vederli quei girasoli, forse per ringraziarli, forse per conoscerli, forse per un’ultima emozione. Cominciò a giocarci. Le rondini erano alte e giravano, scherzando in cielo. Fu un gioco duro: nessun colore era mai stato per lui così forte, come quello dei girasoli nel meriggio; quasi avessero accumulato tutto il sole e il caldo della giornata: il fuoco della terra e la luce del cielo. Volò sopra e si sentì abbagliato dall’ardire della luce gialla; si rifugiò sotto, fra la terra, le corolle e le loro grandi conchiglie verdi; sbatté sugli steli. Cominciò a vedere uragani gialli; combatté con le ali, contro il colore, contro quella violenza insopportabile. Tentò di risalire sopra, ma cadde subito tra gli steli, in terra. Guardò in alto: vide il verde scuro delle conchiglie dei girasoli; e tra il loro ondeggiare, le rondini e il castello; stupide rondini: immobili mura! Si rotolò nella terra scura; sopra di lui, verso il cielo, il fuoco dei colori. E così restò.
Questa novella è stata pubblicata nel N. 5-6 della rivista Cahiers d’Art, dicembre 1994 e nel volumetto Piccole storie Debatte editore 2005

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