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sabato 22 marzo 2025

USA e Ucraina

 NEGLI USA LA STAMPA VICINA AL PARTITO DEMOCRATICO COMINCIA A SQUARCIARE IL VELO DI MENZOGNE E COMPLICITA' CHE HANNO PROVOCATO LA GUERRA IN UCRAINA E INCHIODANO ZELENSCKY E LA NATO ALLE LORO PESANTI RESPONSABILITA'.

Se lo hanno ammesso persino i Democratici statunitensi (il che è tutto dire!), immaginate solo per un attimo le carrellate di bufale che ci hanno propinato in questi tre anni.
La testata giornalistica The Hill, praticamente l'ufficio stampa del Partito Democratico, ora ammette candidamente quello che finora era tabù.
Ecco la traduzione integrale dell’articolo di The Hill pubblicato il 18/3.
“Raramente sono d’accordo con il presidente Trump, ma le sue ultime dichiarazioni controverse sull’Ucraina sono in gran parte vere. Appaiono assurde solo perché il pubblico occidentale è stato nutrito per oltre un decennio con una dose costante di disinformazione sull’Ucraina.
È ora di fare chiarezza su 3 punti chiave che spiegano perché gli ucraini e l’ex presidente Joe Biden – non solo il presidente russo Vladimir Putin – abbiano una significativa responsabilità per lo scoppio e la perpetuazione della guerra in Ucraina.
Innanzitutto, come documentato da prove forensi schiaccianti, e confermato anche da un tribunale di Kiev, furono i militanti nazisti ucraini a iniziare le violenze nel 2014, provocando l’invasione iniziale della Russia nel sud-est del paese, inclusa la Crimea. All’epoca, l’Ucraina aveva un presidente filo-russo, Viktor Yanukovych, eletto liberamente nel 2010 con il forte sostegno della minoranza russa nel sud-est del paese.
Nel 2013, Yanukovych decise di perseguire una cooperazione economica con la Russia anziché con l’Europa, come precedentemente pianificato. I filo-occidentali risposero con occupazioni pacifiche della piazza Maidan e degli uffici governativi, fino a quando il presidente offrì sostanziali concessioni a metà febbraio 2014, dopo le quali i manifestanti si ritirarono.
Tuttavia, proprio in quel momento, i militanti di destra iniziarono a sparare sulla polizia ucraina e sui manifestanti rimasti.
La polizia rispose al fuoco, e i militanti sostennero falsamente che erano stati uccisi manifestanti disarmati.
Indignati da questo presunto massacro governativo, gli ucraini si riversarono nella capitale e costrinsero il presidente alla fuga.
Putin rispose inviando truppe in Crimea e armi nel Donbass, a sostegno dei russofoni che ritenevano che il loro presidente fosse stato destituito in modo antidemocratico.
Questa premessa non giustifica l’invasione russa, ma spiega che non fu del tutto “non provocata”.
In secondo luogo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha contribuito a un’escalation della guerra violando gli accordi di pace con la Russia e cercando aiuti militari e l’adesione alla NATO.
Gli accordi di Minsk 1 e 2, negoziati dal suo predecessore Petro Poroshenko nel 2014 e 2015, prevedevano l’autonomia politica del Donbass entro la fine del 2015, una misura che Putin riteneva sufficiente per impedire all’Ucraina di unirsi alla NATO o diventare una sua base militare.
Tuttavia, l’Ucraina rifiutò per 7 anni di rispettare tale impegno.
Zelensky, durante la campagna elettorale del 2019, promise di implementare gli accordi per prevenire ulteriori conflitti.
Ma una volta eletto, fece marcia indietro, apparentemente meno preoccupato del rischio di una guerra piuttosto che apparire debole nei confronti della Russia.
Aumentò invece le importazioni di armi dai paesi NATO, cosa che rappresentò l’ultima goccia per Putin. Il 21 febbraio 2022, la Russia riconobbe l’indipendenza del Donbass, vi schierò truppe per “mantenere la pace” e chiese a Zelensky di rinunciare alla NATO.
Al suo rifiuto, Putin lanciò un’offensiva militare su larga scala il 24 febbraio.
In terzo luogo, anche Joe Biden ha contribuito in modo cruciale all’escalation del conflitto.
Alla fine del 2021, quando Putin mobilitò le truppe al confine ucraino e chiese il rispetto degli accordi di Minsk, era evidente che, senza concessioni da parte di Zelensky, la Russia avrebbe invaso per creare almeno un corridoio tra Donbas e Crimea.
Biden, invece di insistere perché Zelensky accettasse le richieste di Putin, lasciò la decisione al leader ucraino, promettendo una risposta “rapida e decisiva” in caso di invasione. Questa promessa fu interpretata da Zelensky come un via libera per sfidare Putin.
Se Trump fosse stato presidente, probabilmente non avrebbe concesso un assegno in bianco a Zelensky, costringendolo a rispettare gli accordi di Minsk per evitare la guerra. Inoltre, Trump non avrebbe concesso all’Ucraina un veto sulle trattative di pace, come invece ha fatto Biden, alimentando in Zelensky false speranze di un sostegno militare decisivo da parte degli Stati Uniti, poi negato per timore di un’escalation nucleare.
I contorni di un accordo per porre fine alla guerra sono chiari: la Russia manterrà il controllo della Crimea e di parte del sud-est, mentre il resto dell’Ucraina non entrerà nella NATO ma riceverà garanzie di sicurezza da alcuni paesi occidentali. Purtroppo, un simile accordo avrebbe potuto essere raggiunto due anni fa se Biden avesse condizionato gli aiuti militari a un cessate il fuoco.
Invece, la guerra è proseguita, causando centinaia di migliaia di vittime e spostando le linee del fronte di meno dell’1% del territorio ucraino.
Qualunque accordo di pace emergerà dopo questa guerra sarà peggiore per l’Ucraina rispetto agli accordi di Minsk, che Zelensky ha abbandonato per ambizioni politiche e una ingenua fiducia in un sostegno statunitense senza limiti”.
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The Hill - Alan J. Kuperman (docente di strategia militare e gestione dei conflitti all’Università di Austin, Texas)
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venerdì 21 marzo 2025

21 marzo 1970


  Ksar Debbab

martedì 18 marzo 2025

 Manifestazioni di piazza a Roma

 Impiegati dei Sindacati, per lo più pagati dallo Stato con le CAF; maestri, professori e insegnanti in genere , statali ,non sempre ma quasi; ministeriali , statali; studenti e pensionati , statali ; qualche libero professionista al seguito del cliente , quasi sempre statale ; giornalisti, sovvenzionati dallo Stato ; redditieri , pochi; poveri con pochi aiuti dallo Stato; impiegati di partiti, associazioni, circoli, e così via , mantenuti anche o in prevalenza con soldi dello Stato. 

 



Non sono un sovranista. Sono molto meno e molto più.  Sono aretino e sono etrusco. Vado per terra di origine e per etnia ( i miei valori sono quelli ). E sono aristocratico, per esclusione ; non sono borghese, "
classe di mezzo" e non sono "popolano" ; non sono salottiero, né festaiolo ;non ho bisogno della bocciofila, della parrocchia o del circolo. Vivo per conto mio , con socialità aperta e educata.

lunedì 22 luglio 2024

 LO SCANDALO DEI MEDIA

Ucrainagate: era vera la corruzione dei Biden

Per aver fatto lo scoop sulle email di Hunter Biden, figlio dell'attuale presidente americano, il New York Post era stato bannato dai social network. Trump, che aveva chiesto al presidente Zelensky di investigare sugli affari loschi dei Biden, aveva subito il processo di impeachment. Tutto venne liquidato come "disinformazione". Ma era tutto vero, come ammette anche il New York Times. 

ESTERI 21_03_2022
Joe Biden e il figlio Hunter Biden

Le mail di Hunter Biden non sono mai state “disinformazione”: è tutto vero, è stato tutto autenticato. È quello che, in queste ore, ha ammesso il New York Times riferendosi agli scandali che hanno coinvolto il figlio dell’attuale presidente Usa, già sotto inchiesta federale. Era una bomba. Il tipo di scoop che avrebbe potuto produrre mesi di titoli - e per di più, Hunter Biden non ha mai negato che il laptop fosse suo - ma tutto venne liquidato come disinformazione russa.

Fu il New York Post l’unico giornale a lanciare la storia, ma venne punito dalla Silicon Valley. Twitter chiuse l'account del Post per 16 giorni e impedì di condividere qualsiasi informazione sul figlio di quello che sarebbe poi diventato il presidente degli Stati Uniti d’America. Chiunque tentò di postare la storia vide i propri account bloccati. Facebook affermò candidamente che avrebbe “limitato la pubblicazione” del caso rendendo la condivisione impossibile. Il blocco fu efficace: parlare di Hunter Biden significava essere un teorico della cospirazione. Ora, a 14 mesi dall'inizio del nuovo corso alla Casa Bianca, il New York Post rivendica la rivincita con un editoriale dal titolo, “Il New York Times odia dirvi che il Post ve l’aveva detto”.

È necessario, però, un salto indietro di oltre 17 mesi, quelli che il Nyt ha impiegato per riconoscere la veridicità di una vicenda che avrebbe potuto cambiare i destini del mondo. L’articolo del Post intitolato Biden’s secret Emails venne pubblicato ad ottobre 2020, nelle settimane cruciali dell’ultima campagna elettorale presidenziale. Circa 40mila e-mail e centinaia di foto erano state trovate su un computer che Hunter Biden aveva lasciato in riparazione in un negozio nel Delaware, e che non venne mai ritirato. L’inchiesta delineò l’intreccio tra le vicende familiari dei Biden, il percorso politico di Joe e le controversie internazionali di Hunter.

Ad essere interessante, infatti, non era solo il materiale che testimoniava l’utilizzo di droghe da parte del figlio dell’attuale presidente Usa e la sua frequentazione di prostitute. Ma la posta elettronica che rintracciava documenti relativi ad ingenti movimenti bancari e traffici d’influenza internazionale, che, nella maggior parte dei casi furono possibili per la posizione in cui Hunter si trovava grazie al ruolo del padre. Joe Biden avrebbe incontrato i soci d’affari ucraini, russi e kazaki di suo figlio a una cena a Washington Dc, mentre era vicepresidente. La conferma arriva proprio dal laptop abbandonato, ora in possesso dell’Fbi. La cena, tenutasi il 16 aprile 2015, si svolse nella “Garden Room” privata del Café Milano, Georgetown, dove si riuniscono gli uomini più potenti del mondo. E solo un anno prima, ad aprile 2014, la Burisma Holdings, la maggiore compagnia energetica dell'Ucraina (attiva sia su gas che petrolio), assume per una consulenza Hunter Biden con uno stipendio di 50mila dollari al mese.

Il figlio di Biden, nonostante non parlasse la lingua e non avesse particolari esperienze nel campo energetico, venne assunto pochi mesi dopo la decisione di Obama di affidare al suo vice il compito di seguire la transizione politica in Ucraina con il presidente Viktor Yanukovich costretto dalla rivoluzione del Maidan all’autoesilio in Russia per evitare la guerra civile. Sono i mesi in cui il Donbas - territorio ricco di giacimenti di gas non ancora esplorati e finiti nel mirino della Burisma Holdings - inizia a rivendicare l’indipendenza da Kiev. Una presenza in Ucraina, quella di Hunter, che a quanto scrisse il New York Times, suscitò “forti preoccupazioni” in Obama.

Il potenziale conflitto d’interessi affiora, però, solo nel maggio 2016. Joe Biden vola a Kiev per informare il presidente Petro Poroshenko che la garanzia di un prestito ammontante a un miliardo di dollari era stata approvata per permettere all’Ucraina di fronteggiare i debiti. Ma si trattava a tutti gli effetti di aiuto “condizionato”: se Poroshenko non avesse licenziato il procuratore capo, Viktor Shokin, nello stretto giro di sei ore, Biden sarebbe tornato negli Usa e l’Ucraina non avrebbe più avuto alcuna garanzia di prestito.

Argomentazione convincente, che costrinse Kiev ad accontentare l’allora vicepresidente con delega alla politica nell’ex Paese sovietico. Sarà lo stesso Biden a vantarsi di aver minacciato l’allora presidente ucraino Poroshenko, “Li guardai negli occhi e dissi, io parto tra sei ore, se il procuratore non è stato licenziato, non avrete i soldi. Beh, il figlio di pu****a è stato licenziato”. Shokin stava indagando sull’azienda nel cui board figurava Hunter.

In cinque anni, la posizione di consigliere di amministrazione presso la compagnia energetica ucraina è valsa a Hunter ben 4 milioni di dollari, compensi che nelle proprie memorie lui stesso ha definito: “soldi divertenti”. Il figlio di Joe Biden aveva già ottenuto, nel frattempo, un incarico presso il National Democratic Institute (Ned), un’organizzazione il cui fine è quello di “promozione della democrazia”, finanziata dagli Stati Uniti, che ha contribuito a rovesciare il governo filo-russo di Yanukovich insieme all’Open Society di George Soros.

Fu, invece, Tony Bobulinski, ex socio in affari di Hunter Biden, a denunciare gli affari dei Biden in Cina. Bobulinski dichiarò di essere stato contattato per concludere un affare con la compagnia energetica Cefc - grande azienda cinese legata al Partito Comunista. Il contatto sarebbe avvenuto alla vigilia di Natale del 2015, il 20% dei proventi sarebbe andato a Hunter Biden, il 20% a Jim Biden, fratello del vicepresidente. Stando ad un’email dello stesso Hunter Biden, il 10% della quota di Hunter Biden sarebbe toccato, però, al “grande uomo” - modo con cui veniva indicato il padre. Due anni dopo, Bobulinski racconterà di aver incontrato anche personalmente Joe Biden, ormai ex vicepresidente, sempre per l’affare con la Cefc.

L’Ucrainagate scoppia nel bel mezzo della campagna elettorale del 2020. E fece parecchio scalpore, specie sui media italiani, la richiesta di Trump al presidente Zelensky di aprire un'inchiesta nei confronti del figlio di Biden per chiarire i rapporti con la Burisma Holdings. Ma Trump finì solamente con l’essere accusato di pressioni per un vantaggio politico, venne chiesta la procedura di impeachment, e nessuna indagine sui Biden venne aperta dal governo ucraino.

Qualche mese dopo Joe Biden sarà eletto presidente degli Stati Uniti. È il dicembre 2020, il New York Times intervista Zelensky e gli chiede dell’esito delle presidenziali Usa: “Joe Biden conosce l'Ucraina meglio del suo predecessore. Anche prima della sua presidenza aveva, per così dire, relazioni profonde con l'Ucraina e comprende bene i russi, capisce bene la differenza tra Ucraina e Russia e penso capisca bene la mentalità degli ucraini”.

 

 


Concarneau : la banchina di Liliane

giovedì 4 aprile 2024

 ZELE'

Il nemico del mio nemico è mio amico. È questa la frase che sintetizza meglio i rapporti tra il governo ucraino e Denis Kapustin, un russo di estrema destra definito senza mezzi termini neonazista dal Bnd, il servizio federale di intelligence tedesco, alla guida del Corpo dei Volontari Russi (Cvr), la più grande delle tre milizie russe anti-Cremlino che combattono per l’Ucraina e che hanno come obiettivo rovesciare Vladimir Putin. In un’intervista rilasciata a Politico in un albergo nel centro di Kiev, Kapustin spiega di non volere neri e omosessuali nella sua milizia e si definisce «decisamente di destra», ma respinge l’etichetta di neonazi. Di certo il suo ruolo nella guerra è un’arma a doppio taglio per Kiev. «Noi siamo i cattivi, ma combattiamo contro quelli davvero cattivi», scherza Kapustin, che nelle scorse settimane ha guidato un’operazione in grande stile dei paramilitari nella regione russa di Belgorod, con scontri andati avanti per giorni.

martedì 15 agosto 2023

Miliziani "ucraini"

 

Chi sono gli stranieri che combattono per Kiev

Sono diversi i gruppi di miliziani che combattono a fianco dell’esercito ucraino, fra mercenari, volontari e paramilitari, pur non rientrando ufficialmente nell’organico militare. Gran parte di queste “truppe ausiliarie” è formata da cittadini russi dagli ideali fortemente antiputiniani. Il gruppo più nutrito e famoso è forse il Corpo dei volontari russi (detto RDK, “Russkiy Dobrovolcheskiy Korpus”), responsabile soprattutto delle incursioni nelle regioni russe di Belgorod e Bryansk e oggetto di un’inchiesta giornalistica per posizioni neonaziste. Come del resto anche le milizie Centuria e Pravyj Sektor. Da cittadini della Federazione è formata anche la Legione per la libertà della Russia (Lehion Svobodnyi Rossiyi).

Sono state segnalate in Ucraina anche le milizie polacche nazionaliste del PDK (Corpo dei volontari polacchi). C’è poi il corpo ufficialmente inquadrato dallo Stato Maggiore di Kiev che annovera cittadini stranieri, detta appunto Legione Straniera, e che va a integrare le Forze Territoriali. Vi confluiscono combattenti ed esperti da mezzo mondo, passati da un totale di circa 30mila un anno fa agli appena 4mila effettivi attuali. Al loro interno si contano anche contingenti bielorussi (BDK e Pahonia Regiment) e ceceni (Battaglione Dudayev e Battaglione Ichkeria).

Ci sono infine gruppi militari e paramilitari che si pongono a metà tra l’autonomia totale e l’inquadramento nell’esercito regolare, come la Legione Georgiana e altre formazioni provenienti dal Caucaso e dalle Repubbliche Baltiche. Kiev impiega questi contingenti perlopiù in azioni di sabotaggio e guerriglia, parallelamente all’attacco tramite droni a obiettivi strategici (vie di comunicazione, depositi di carburante o centrali energetiche). La paga è praticamente identica a quella dei soldati regolari.

Anche nel caso dei legionari georgiani la trasparenza non è tuttavia il primo dei pensieri di Kiev. Proponendosi come scopo principe “la distruzione di Vladimir Putin”, la Legione caucasica non fa mistero di non considerare “umani” i cittadini russi, senza distinzione fra militari e civili. Attualmente è composta da circa mille uomini provenienti soprattutto da Georgia e Caucaso meridionale, ma anche da altre nazionalità, compresi una cinquantina di britannici.


"Qui finanza" 4 agosto 2023

sabato 22 luglio 2023

Quinto anno

 


Cinque anni fa ci lasciasti. Sei sempre con noi, con me, figli e nipoti, che ti chiamano Lilli. 5 giorni fa mi hanno messo questo aggeggio nel petto : tiene in vita il cuore : l'ho chiamato Li ; mi salverà per il tempo che mi è rimasto...

mercoledì 28 giugno 2023

 

C’ERA UNA VOLTA IL PIANO NAZIONALE TRASPORTI

MARCELLO INGHILESI

“Cami”, “cami” e poi “cami” ( i camion plurale in livornese ; chamions erano i carretti francesi ; diventarono camions e il termine camion è stato adottato nei Paesi latino-europei ; in italiano non ha plurale ; quindi giustamente i labronici lo hanno italianizzato in “cami”). Le autostrade italiane sono diventate ormai delle camionabili, che tollerano anche le auto , ma se stanno buone e non disturbano la complicatissima marcia camionabile a cui tutto è concesso, compresa la continua e pesante violazione di limiti di velocità e altre regole minime previste nel codice della strada . Solo miracoli impediscono stragi quotidiane. Ma attenzione a non contar troppo sui miracoli !

C’era una volta il Piano nazionale dei trasporti. Il principale problema da risolvere in Italia era il trasporto merci, essendo il Paese una penisola lunga e montagnosa con poche autostrade realizzabili. Quindi si ragionò sul trasporto merci su gomma, su rotaia o su acqua. Rotture di carico per le merci su strada con rete di interporti e con possibilità di passare dai grandi camion e tir a una diffusione di leggeri camioncini. Porti merci ferroviari , autonomi e negli interporti. Autostrade del mare.

Oggi il rapporto tra il trasporto su rotaia e quello su gomma in Italia è circa 1 a 10. Le merci sono quasi tutte per strada e non solo nelle autostrade. E’ il libero mercato, caro mio ! In questo libero mercato i produttori di camion e le imprese che li utilizzano hanno annientato le strade ferrate delle merci e anche le autostrade del mare ( ridotte a trsportare solo le merci degli scambi internazionali, che interessano poco o niente la potente lobby del camion ).

E il piano dei trasporti merci ? Nessuno ne parla più. Proviamo a lanciare sassi nello stagno.

La TAV , Torino- Lyon in costruzione , trasporterà merci ? Quante ? Da dove a dove ? Con quali regole ? Il treno esiste già tra Torino e Lione ; ma non sembra trasportare molte merci ; i cami dunque resteranno a occupare le autostrade franco-italiane, il Monte Bianco e il Frejus ?

Una volta i binari arrivavano dentro molti porti italiani ; con la gomma la rotaia è stata eliminata. Dovremmo invece tornare a chiedere le rotaie dentro ai porti, collegate a stazioni di smistamento delle merci per lo più su altre rotaie. Le merci movimentate sui porti dovrebbero avere come base di trasporto e di distribuzione, la ferrovia (che ha come principale difetto quello di non piacere troppo ai signori Agnelli d’Olanda… ).

Gli interporti esistenti dovrebbero avere soprattutto una vocazione ferroviaria. E molti altri interporti dovrebbero essere creati, più o meno grandi. Tanto per fare un esempio polemico toscano , l’interporto di Firenze dovrebbe essere fatto nelle arre di quello stupido aeroporto che i comunardi fiorentini vogliono tenere come un fiore all’occhiello. Un interporto là sarebbe già collegato a tutta la rete ferroviaria nazionale. ( La Toscana ha già un aereoporto tecnicamente grande e perfetto a Pisa : basterebbe collegarlo a Firenze , 80Km ca., con un treno monorotaia ultra

veloce 200-300 km/ h, da mostrare e visitare comme esempio di alta tecnologia italiana, nelle terre di Leonardo ).

La rete dei porti e interporti merci dovrebbe essere progettata per tutta Italia ; e laddove le ferrovie fossero deficienti dovrebbero essere costruite o ricostruite.

Il trasporto merci su ferrovia sarebbe più lento ? Oggi forse si , dato che non c’è un sistema merci ferroviario da comparare a quello stradale. Ma a logica non dovrebbe essere più lento, essendo la rete su ferro disponibile giorno e notte e utilizzabile a velocità superiore al trasporto su gomma.

Sarebbe forse diseconomico ? Assolutamente no , considerati tutti i costi del trasporto su gomma , diretti e indiretti (non solo le autostrade , ma anche le strade statali, le provinciali e talvolta anche le comunali italiane sono percorse da TIR , che le rendono pericolose, costose di manutenzione e ambientalmente insostenibili).

Più complicato ? Oggi forse si, sempre trattandosi di progettare un sistema nuovo da avviare e rodare , anche se progressivamente.

E veniamo al punto più contestato e più delicato. La gomma è più funzionale al trasporto “porta a porta” ( “door to door “, come si dice nella lingua delle scimmie ), anche se necessita talvolta di una o più rotture di carico ( prevalente attività degli attuali interporti ). D’altra parte dagli ultimi interporti sul territorio potrebbero entrare in funzione i furgoncini merci per le “consegne a domicilio”; quindi con una rottura di carico, che non sarebbe proprio una tragedia sia per i costi che per i tempi di circolazione delle merci. Quindi le merci partirebbero con un camioncino fino al più vicino interporto, poi sarebbero trasportate su rotaia e infine consegnate da un altro camioncino.

Insomma le merci , tutte le merci dovrebbero seguire l’esempio del cammino della elettricità : trasporto in “alta, media e bassa tensione” , lasciando la bassa tensione alla “gomma”, ai furgoni o furgoncini.

In questi giorni l’Austria si è ribellata al passaggio sul suo territorio di migliaia di TIR dannosi e inquinanti : e ha ragione, pur in violazione delle regole europee ( a dimostrazione che spesso queste regole sono farlocche ) E in futuro tutti insorgeranno contro l’abuso dei mezzi pesanti. Già oggi in un ipotetico referendum tra “ferro” e “gomma” sul trasporto merci , i cittadini probabilmente in larghissima parte si schiererebbero per il “ferro”.

Tutto questo è avveniristico, onirico, astratto ? No, per l’Italia , data la sua configurazione fisica,sarà una via obbligata . E’ curioso che di tutto questo la politica “verde”, nella cosiddetta transizione energetica, non ne faccia cenno , lasciando il trasporto merci ad appendice dei propri disegni.

Avere ideali,disegnare , progettare e realizzare una volta era funzione della politica : ora non più.