Andai a trovare il sindaco. Ero convinto e deciso. Il palazzo è medievale: le scale e i muri di pietra con gli stemmi dei casati. Le sale rettangolari piccole di pietra, grigie; se non fosse per la loro geometria o per le loro finestre; se non fosse per quegli sguardi antichi fissati sui muri; se non fosse per quell’odore di storia, acuto e penetrante.
“Senti, io sono contrario a che strade e piazze abbiano i nomi dei morti. Devi dargli nomi di vivi: di vivi…eccelsi, che però abbiano anche l’umiltà di prendersi in cura la propria strada o piazza: non è un problema di soldi; ognuno può trattarla con amore, come può; ma deve avere il suo nome”. Mi guardò tra l’impaurito (è pazzo?) e l’interessato: perché la proposta non faceva una grinza. “L’idea è buona: ma come fare? Ti rendi conto? Il consiglio comunale, la lotta dei partiti, la politica, ognuno vorrà una strada, una piazza; diventerà un inferno!”.
“No, perché devi avere il coraggio di scegliere, e poi le strade e le piazze sono tante: centinaia, migliaia; e poi i morti saranno sostituiti; e poi chi è nato in una strada o piazza deve essere avvantaggiato; e quanti sono nati lì, quanti i veri concorrenti? Con la mobilità attuale: e con la palude della borghesia e dell’anonimato: ma no, vedrai, sarà facile”.
“Insomma…pensaci…aspetteranno con avidità la morte di qualcuno; e poi gireranno soldi…tutti i ricchi vorranno la loro strada o piazza…poi ci saranno le mode; le stradine ai poveri, seppur eccelsi, e le piazze ai ricchi…o i viali…e così via…fammici pensare!”
Ci pensò, divertendosi nel disegno; ma lo considerò solo un gioco. Lo capii: e quindi cominciai a chiederlo a tutti quelli che gli stavano attorno (tattica della “pressione-opressione”!)
E in effetti questa linea ebbe successo. Il sindaco cominciò a valutare seriamente l’idea, il progetto: il comitato dei garanti, la commissione esaminatrice, la proposta popolare, qualche referendum: insomma un impasto giusto per un’idea fascinosa. Ne parlarono molto; e poi venne il giorno: il progetto partì, con la mia candidatura, tra le altre. Mi proposero (come di soppiatto avevo chiesto)di sostituire il vecchio nome di via della Seteria (ove ero nato, in alto, nel borgo medievale). Per accettare la candidatura, avrei dovuto…autodocumentarmi e difendere la proposta. Cominciai col sostenere che il riferimento alla seta della vecchia strada non voleva dire nulla: era vero che una volta là si vendevano le stoffe, tra cui la seta: ma era vero altresì che quella strada aveva un unico riferimento, reale e storico: quello di salire sul fianco della Pieve, chiesa solenne del 1100, grandissima e tenerissima madre mia. Per farsi dare la strada, bisognava anche parlare di se stessi e dei propri meriti: non sembrava cosa facile; e invece poi scoprii essere proprio facile e anche gradevole: il narcisismo fu violento e mio padrone, quasi totale.Il lavoro che feci, dunque, fu come una tesi di laurea, con tanto di documentazione e bibliografia. Il comitato-commissione-proposta-referendum studiò bene le mie argomentazioni: e le trovò corrette. E un giorno, un bellissimo giorno, le autorità, il consiglio comunale, decisero di cambiare il nome di via Seteria in via Marcello Inghilesi, il mio nome, discendente da una famiglia che lì aveva vissuto per molto tempo.
Per qualche giorno rimasi stordito per l’onore fattomi (o che ero riuscito a farmi); e poi emozionato: commosso. Mi feci infine coraggio e andai nella strada: trovai già la scritta “ Via Marcello Inhgilesi” e sotto, più piccolo, “illustre aretino, contemporaneo”. Poi andai a leggere i campanelli, a guardare le botteghe: a scrutare la gente: come se tutto fosse mio, in casa mia. Il possesso è terribile: quella strada mi dava l’idea del possesso. Avrei voluto gente mia, che piacesse a me; avrei voluto tutto pedonale, avrei voluto una passeggiata, una linea della strada un suo profilo: che le case… avrei voluto…La Pieve continuava a ombreggiare tutta la strada: quelle pietre, quel grande portale, lungo la fiancata destra, che avevano aperto per battezzarmi: traversarono la strada fui battezzato: quella chiesa, ove giurarono i miei genitori: quella chiesa, ove un giorno forse avrebbero pianto le note dei miei funerali.
Fu un tempo violento quello della visita a via Marcello Inghilesi: i sentimenti si ruppero più volte e più volte si ruppero le idee, i progetti; poi stanco mi addormentai.
I mesi, gli anni fecero giustizia delle prime emozioni. Appena possibile andavo nella mia strada: ormai conoscevo tutti; avevo simpatie e antipatie, con reciprocità, come sempre, in quelle strade antiche. Pensai alle pietre, ai fiori, a discutere linee e profili, in riunioni assembleari, rissose e divertenti.
La mia strada doveva essere più bella delle altre: partivo sicuramente dal vantaggio delle linee e della storia, delle pietre e dei colori, del disegno. Ma era un lavoro infernale: un grande condominio, che comprendeva anche il preposto della Pieve. Ognuno voleva qualcosa e nessuno voleva pagare. I miei concorrenti ricchi, anche se avevano avuto strade e piazze più pesanti come gestione, risolvevano tutto con loro delegati e con soldi. Io invece volevo star sempre lì, a discutere di tutto: peggio di un bambino con i giocattoli: o di un Narciso al suo specchio. Ero già vecchio, con i dolori dei vecchi e la testa sempre più infantile, arruffata e capricciosa dei vecchi.
La strada cominciò ad annebbiarsi: i disegni si confondevano, ritornavano e sparivano di nuovo. E un giorno la nebbia si fece fitta e ci fu il trapasso, con le note struggenti, nella Pieve, nella strada. Trovai subito il Signore, vecchissimo e bellissimo, bianchissimo e dolcissimo; il Signore! Mi parlò immediatamente dei miei tanti peccati: e poi si fermò a lungo sulla “complicazione” della strada.
“Ma come ti è venuto in mente? Orgoglio e narcisismo; ma anche amore: e ore che faccio io? Spiegami!”.
Rifeci la lunga questione tra vivi e morti; e ripetei che ai vivi la strada importa più che ai morti.
“No, figliolo; qui molte creature sono altrettanto orgogliose di restare nella mente della Terra, per sempre o quasi; se lo meritano: così non sembrano neppure morti: e la gente li conosce, li ricorda, perché hanno lasciato un segno importante nella Terra”.
“Ma Signore, e le strade? Anche loro devono vivere, con qualcuno che sia orgoglioso di loro, in vita, non qui dove loro non vedono”.
“Non fare confusione: le strade e le piazze sono di pietra: fanno tutto da loro; il nome è solo un simbolo: hanno bisogno di garzoni, non di padroni!”
Rimasi male: le strade e le piazze non sono di pietra. E vero, hanno bisogno di garzoni e non di padroni; ma hanno anche bisogno di parlare con qualcuno; sennò sono morte. Il Signore lesse il mio dissenso e il mio dispiacere.
“Non devi crucciarti: ti ho parlato per mitigare il tuo orgoglio e il tuo radicato edonismo: ma non voglio mortificare il tuo amore: tu stai solo sognando di allargare i confini del mondo delle creature: e quindi di farmi onore. Sogna pure: e se qualcuno ti segue (come quel sindaco laggiù), il sogno sarà ancora più grande: il sogno che le strade possono anche non essere di pietra e parlare a tutti quelli che vogliono sentirle”.
[1] Questa piccola storia è stata pubblicata nel N. 3 della rivista Cahiers d’Art, settembre 1994.
“Senti, io sono contrario a che strade e piazze abbiano i nomi dei morti. Devi dargli nomi di vivi: di vivi…eccelsi, che però abbiano anche l’umiltà di prendersi in cura la propria strada o piazza: non è un problema di soldi; ognuno può trattarla con amore, come può; ma deve avere il suo nome”. Mi guardò tra l’impaurito (è pazzo?) e l’interessato: perché la proposta non faceva una grinza. “L’idea è buona: ma come fare? Ti rendi conto? Il consiglio comunale, la lotta dei partiti, la politica, ognuno vorrà una strada, una piazza; diventerà un inferno!”.
“No, perché devi avere il coraggio di scegliere, e poi le strade e le piazze sono tante: centinaia, migliaia; e poi i morti saranno sostituiti; e poi chi è nato in una strada o piazza deve essere avvantaggiato; e quanti sono nati lì, quanti i veri concorrenti? Con la mobilità attuale: e con la palude della borghesia e dell’anonimato: ma no, vedrai, sarà facile”.
“Insomma…pensaci…aspetteranno con avidità la morte di qualcuno; e poi gireranno soldi…tutti i ricchi vorranno la loro strada o piazza…poi ci saranno le mode; le stradine ai poveri, seppur eccelsi, e le piazze ai ricchi…o i viali…e così via…fammici pensare!”
Ci pensò, divertendosi nel disegno; ma lo considerò solo un gioco. Lo capii: e quindi cominciai a chiederlo a tutti quelli che gli stavano attorno (tattica della “pressione-opressione”!)
E in effetti questa linea ebbe successo. Il sindaco cominciò a valutare seriamente l’idea, il progetto: il comitato dei garanti, la commissione esaminatrice, la proposta popolare, qualche referendum: insomma un impasto giusto per un’idea fascinosa. Ne parlarono molto; e poi venne il giorno: il progetto partì, con la mia candidatura, tra le altre. Mi proposero (come di soppiatto avevo chiesto)di sostituire il vecchio nome di via della Seteria (ove ero nato, in alto, nel borgo medievale). Per accettare la candidatura, avrei dovuto…autodocumentarmi e difendere la proposta. Cominciai col sostenere che il riferimento alla seta della vecchia strada non voleva dire nulla: era vero che una volta là si vendevano le stoffe, tra cui la seta: ma era vero altresì che quella strada aveva un unico riferimento, reale e storico: quello di salire sul fianco della Pieve, chiesa solenne del 1100, grandissima e tenerissima madre mia. Per farsi dare la strada, bisognava anche parlare di se stessi e dei propri meriti: non sembrava cosa facile; e invece poi scoprii essere proprio facile e anche gradevole: il narcisismo fu violento e mio padrone, quasi totale.Il lavoro che feci, dunque, fu come una tesi di laurea, con tanto di documentazione e bibliografia. Il comitato-commissione-proposta-referendum studiò bene le mie argomentazioni: e le trovò corrette. E un giorno, un bellissimo giorno, le autorità, il consiglio comunale, decisero di cambiare il nome di via Seteria in via Marcello Inghilesi, il mio nome, discendente da una famiglia che lì aveva vissuto per molto tempo.
Per qualche giorno rimasi stordito per l’onore fattomi (o che ero riuscito a farmi); e poi emozionato: commosso. Mi feci infine coraggio e andai nella strada: trovai già la scritta “ Via Marcello Inhgilesi” e sotto, più piccolo, “illustre aretino, contemporaneo”. Poi andai a leggere i campanelli, a guardare le botteghe: a scrutare la gente: come se tutto fosse mio, in casa mia. Il possesso è terribile: quella strada mi dava l’idea del possesso. Avrei voluto gente mia, che piacesse a me; avrei voluto tutto pedonale, avrei voluto una passeggiata, una linea della strada un suo profilo: che le case… avrei voluto…La Pieve continuava a ombreggiare tutta la strada: quelle pietre, quel grande portale, lungo la fiancata destra, che avevano aperto per battezzarmi: traversarono la strada fui battezzato: quella chiesa, ove giurarono i miei genitori: quella chiesa, ove un giorno forse avrebbero pianto le note dei miei funerali.
Fu un tempo violento quello della visita a via Marcello Inghilesi: i sentimenti si ruppero più volte e più volte si ruppero le idee, i progetti; poi stanco mi addormentai.
I mesi, gli anni fecero giustizia delle prime emozioni. Appena possibile andavo nella mia strada: ormai conoscevo tutti; avevo simpatie e antipatie, con reciprocità, come sempre, in quelle strade antiche. Pensai alle pietre, ai fiori, a discutere linee e profili, in riunioni assembleari, rissose e divertenti.
La mia strada doveva essere più bella delle altre: partivo sicuramente dal vantaggio delle linee e della storia, delle pietre e dei colori, del disegno. Ma era un lavoro infernale: un grande condominio, che comprendeva anche il preposto della Pieve. Ognuno voleva qualcosa e nessuno voleva pagare. I miei concorrenti ricchi, anche se avevano avuto strade e piazze più pesanti come gestione, risolvevano tutto con loro delegati e con soldi. Io invece volevo star sempre lì, a discutere di tutto: peggio di un bambino con i giocattoli: o di un Narciso al suo specchio. Ero già vecchio, con i dolori dei vecchi e la testa sempre più infantile, arruffata e capricciosa dei vecchi.
La strada cominciò ad annebbiarsi: i disegni si confondevano, ritornavano e sparivano di nuovo. E un giorno la nebbia si fece fitta e ci fu il trapasso, con le note struggenti, nella Pieve, nella strada. Trovai subito il Signore, vecchissimo e bellissimo, bianchissimo e dolcissimo; il Signore! Mi parlò immediatamente dei miei tanti peccati: e poi si fermò a lungo sulla “complicazione” della strada.
“Ma come ti è venuto in mente? Orgoglio e narcisismo; ma anche amore: e ore che faccio io? Spiegami!”.
Rifeci la lunga questione tra vivi e morti; e ripetei che ai vivi la strada importa più che ai morti.
“No, figliolo; qui molte creature sono altrettanto orgogliose di restare nella mente della Terra, per sempre o quasi; se lo meritano: così non sembrano neppure morti: e la gente li conosce, li ricorda, perché hanno lasciato un segno importante nella Terra”.
“Ma Signore, e le strade? Anche loro devono vivere, con qualcuno che sia orgoglioso di loro, in vita, non qui dove loro non vedono”.
“Non fare confusione: le strade e le piazze sono di pietra: fanno tutto da loro; il nome è solo un simbolo: hanno bisogno di garzoni, non di padroni!”
Rimasi male: le strade e le piazze non sono di pietra. E vero, hanno bisogno di garzoni e non di padroni; ma hanno anche bisogno di parlare con qualcuno; sennò sono morte. Il Signore lesse il mio dissenso e il mio dispiacere.
“Non devi crucciarti: ti ho parlato per mitigare il tuo orgoglio e il tuo radicato edonismo: ma non voglio mortificare il tuo amore: tu stai solo sognando di allargare i confini del mondo delle creature: e quindi di farmi onore. Sogna pure: e se qualcuno ti segue (come quel sindaco laggiù), il sogno sarà ancora più grande: il sogno che le strade possono anche non essere di pietra e parlare a tutti quelli che vogliono sentirle”.
[1] Questa piccola storia è stata pubblicata nel N. 3 della rivista Cahiers d’Art, settembre 1994.
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